domenica 4 settembre 2011


La bronzistica tardo arcaica in Magna Grecia: Sibari-Poseidonia o Taranto?

Un contributo al dibattito scientifico sulla toreutica tarantina.

di Giovanna Bonivento Pupino

Sull’esistenza di una scuola posidoniate per la lavorazione del decoro scultoreo templare in loco si può essere d’accordo per il tipo di produzione, per quanto il termine “coloniale” implichi anche l’eventualità di artigiani-coloni immigrati in più generazioni dalla madre patria Sibari e stabilitisi nella colonia almeno per la durata di 60 anni, dal 580 al 480 a.C.: più generazioni di artisti influenzati da numerosi e ben approfonditi stilemi dell’arte ionica.

Nell’ambito della plastica in bronzo grande spazio merita in questo dibattito (BONIVENTO PUPINO 1987) la produzione di grandi crateri in metallo per simposio, una classe che ci collega alla problematica sulla toreutica tarantina ed alla metallurgia in genere nella colonia spartana di Taras, in relazione alla presenza o meno di ateliers locali con una tradizione (BONIVENTO PUPINO 1970); non basta infatti identificare i luoghi di rinvenimento di metalli ed oreficerie, tra cui sbalzi d’argento e gioielli aurei, come luoghi di produzione, per affermare l’esistenza di una tradizione in loco di “toreutica tarantina” come affermato nell’ottica del pantarantinismo (WUILLEUMIER 1939) e neopantarantinismo in relazione a toreutica ed “ori di Taranto”(LIPPOLIS 1985) attribuendo a lavorazione con ubicazione in fabbrica tarantina sia di bronzi arcaici sia di argenti cesellati di età classica ed oreficeria dall’arcaica all’ellenistica, prodotti di prestigio circolati in un circuito commerciale nell’area tarantina ed apula perché apprezzati dalle elites come doni di prestigio o al seguito dei condottieri.

Un caposaldo della toreutica tarantina è stato ritenuto il famoso cratere di Vix; nello studio di questo capiente vaso da banchetto, rinvenuto in area celtica, è stata notata una grande somiglianza tra un bronzetto raffigurante una testa di cavallo trovato a Sibari e la testa equina sul collo del cratere di Vix, ritenuto dalla passata critica un caposaldo della toreutica tarantina; secondo Rolley invece si deve far risalire come produzione allo stesso atelier in cui vennero prodotte almeno quattro delle famose hydriai dell’heroon di Poseidonia, il cenotafio di Is fondatore di Sibari, trasportato nella colonia sibarita di Poseidonia dopo la distruzione di Sibari nel 510 a.C.

Tale atelier di bronzisti produttore della piccola applique a testa di cavallo, di quattro hydriai dell’heroon, del cratere di Vix, nell’ipotesi di Rolley è da ritenersi dunque sibarita: a Sibari si sarebbero prodotti vasi martellati, pregevoli opere di toreutica, con corpo tuttuno col labbro secondo una pregevole tecnica perduta proprio con la distruzione di Sibari del 510 a.C., data che avrebbe segnato l’arresto della produzione, provata anche dal rinvenimento di due frammenti di anse orizzontali da Francavilla Marittima (Sibari) simili ai tipi da Paestum.

Nella concitazione della fuga i profughi sibariti curarono il trasporto sia del cenotafio del loro eroe fondatore sia dei pregevoli vasi di bronzo deposti all’interno del suo heroon.

Col metodo dell’analogia stilistica e dell’analisi tecnologica, in questo caso riferita alla tecnica di martellamento, il caposaldo della toreutica tarantina, il cratere di Vix, è rimesso in discussione, lasciando aperto il dibattito ancora in corso sull’ubicazione della fabbrica: un atelier laconico,spartano -tarantino? sibarita? etrusco?

Sull’ipotesi di una scuola poseidoniate di bronzi e bronzetti vorrei riprendere la considerazione di Paola Zancani Montuoro (segnalante per Poseidonia-Paestum reperti arcaici e tardo arcaici quali: l’applique di Berlino, il sostegno di specchio che Phillo dedicò ad Atena, gli otto vasi colmi di miele nell’ipogeo dedicato ad Is, nell’Athenaion: «Siamo allo scorcio del VI a.C., poi la produzione bronzistica si ferma e dobbiamo scendere all’età romana con la statua di bronzo di Marsia, prodotto per di più non raffinato».

La studiosa dunque rimarca il salto troppo lungo di cronologia, il vuoto di produzione nel tempo, la mancanza di prodotti riconducibili all’età classica ed ellenistica, in altri termini l’assenza di una tradizione bronzistica a Poseidonia.

Può essersi-mi chiedo-formata una scuola sibarita di bronzisti solo per l’età arcaica? Anche ammettendone l’interruzione a causa della distruzione del 510 a.C., come si spiega l’assenza di una continuità dell’atelier dopo il trasferimento dei profughi a Posidonia?

A questo punto del dibattito riemerge la questione della c.d."toreutica tarantina": i legami stilistici riscontrati dalla studiosa tra la forma dei decori degli esemplari più fini con prodotti riferiti alla produzione tarantina di derivazione laconica fanno sì che la piccola plastica in bronzo rinvenuta a Poseidonia si inserisca nel problema della toreutica tarantina da me affrontato sin dagli anni settanta in riferimento alla definizione ed ubicazione degli ateliers.

Nel quadro complesso della plastica tardo-arcaica in bronzo quale il ruolo di Taranto ritenuta sede importante di atelier di bronzisti e toreuti? Vi erano localizzate fabbriche, come sostiene la maggior parte della passata critica( NEUGEBAUER 1923, JANTZEN 1937, JOFFRY 1954) oppure si è costruita un filone di ricerca che ha portato avanti nel tempo studi su singoli reperti inseriti in una tradizione di “toreutica tarantina” senza prove certe e solo sulla base di analisi stilistiche, partendo da un caposaldo arcaico,il cratere di Vix appunto, attribuito per primo a fabbrica tarantina?(G.BONIVENTO PUPINO 1970).

Oggi con gli studi di Rolley il ruolo di Taranto è minimizzato a favore di Sibari-Poseidonia, ma anche in tal caso le prove non sono solide in quanto nel settore della lavorazione dei metalli il luogo di reperimento di un oggetto, vuoi bronzo fuso o rame sbalzato o argento cesellato o gioiello, non coincide tout court col luogo di produzione data la mobilità dei prodotti e degli stessi artefici. Per ubicare con sicurezza un atelier dei metalli occorrono d’altro canto reperti connessi con la produzione in situ: residui di lavorazione, scorie, attrezzi,crogioli, stampi di colaggio, forni di fusione per le grandi statue che sicuramente lasciano una traccia; la toreutica invece non richiede,in quanto lavorazione a freddo dei metalli, grandi attrezzature o forni di fusione; stessa considerazione vale per la lavorazione dei metalli preziosi che spesso percorrono lunghe distanze dal luogo di produzione al luogo di ritrovamento. Del resto lo stesso Rolley ammette in questo dibattito “je reconnais que les lieux de découverte peuvent être différent des lieux de fabrication” (ROLLEY 1987)

Riguardo alla produzione dei crateri da simposio utilizzati dai greci anche come cheimelia o doni di rappresentanza per penetrare nelle realtà indigene non greche a scopo commerciale, accattivandosi i grandi capi-tribù, constato che dopo decenni di critica archeologica è ancora difficoltoso e problematico il reperimento di un punto fermo.

Neanche la classe delle hydriai contribuisce all’ubicazione definitiva dell’atelier (greco o magno greco?).

Nel patrimonio museale tarantino si conserva un’hydria arcaica in bronzo del secondo quarto VI secolo a.C., rinvenuta ad Ugentum, completamente fusa, senza ripresa a martello, simile nella tecnica alla n.6 delle hydriai di Posidonia-Paestum(catalogo Rolley); ebbene tale hydria con decoro a testa leonina tra rotelle sull’attacco dell’ansa verticale, è attribuita per la sua peculiarità stilistica sia ad una fabbrica di Corinto (LO PORTO 1970), sia ad un atelier magno greco di filiazione corinzia (ROLLEY 1990, STIBBE 1992, TARDITI 1996).

Quale ruolo dunque spetta alla Magna Grecia nella produzione tardo-arcaica di vasi in bronzo da banchetto? Ci pare indiscutibile il ruolo di diffusione delle varie tecnologie nella lavorazione dei metalli, come la fusione e la martellatura; la nuova tecnica evidenziata da Rolley del montaggio del corpo del vaso con labbro fuso a parte, dopo il modellaggio in cera ed il suo adattamento al collo, precedentemente martellato, con chiodi per fissaggio, dà rilievo al ruolo innovativo della bronzistica tardo-arcaica in Magna Grecia, dove i coloni avrebbero sperimentato nuove procedure tecniche non attestate in patria.

MA perché ipotizzare tanti ateliers, uno a Paestum, centro radiatore, un altro a Trebenischte, un altro ancora a Gela solo perché in quest’ultimo è stata rinvenuta un situla in bronzo eseguita con la tecnica italiota del labbro fuso a parte? L’ipotesi di una proliferazione di ateliers di bronzisti quanti sono i luoghi di rinvenimento dei vasi in bronzo mi sembra meno accettabile di quella che fa piuttosto riferimento ad un circuito commerciale.

C’è inoltre da riflettere sul tema della “laconicità”, cioè delle radici laconiche avvertibili in certa plastica in bronzo da Paestum; il riferimento alla corrente scultorea dell’arte spartana non mi sembra di poco conto rispetto alla corrente ionica, tanto più che già la stessa Paola Zancani Montuoro negli studi sulla scultura templare dei santuari alla foce del Sele aveva fatto riferimento “ad un gusto italiota e più propriamente tarantino” nella lavorazione dell’argilla per la decorazione templare, come appare nei busti femminili in funzione di antefisse.

E’ soprattutto la coroplastica o lavorazione dell’argilla che attesta in occidente lo stile laconico dedalico e proprio nel vaso in bronzo da Gela del c.d. “gruppo Telestas”, una serie di hydriai caratterizzate da teste femminili pendenti dall’ansa verticale, lo stesso Rolley ha riscontrato l’identicità tra la matrice della testa femminile ed una terracotta tarantina.

Il rinvenimento di imitazioni in argilla, se non di veri e propri calchi, di attacchi di hydriai in bronzo, lungo l’arco ionico, mi convince sempre più del rapporto tra bronzistica e coroplastica; in particolare andrebbe riesaminata la ricca produzione di coroplastica tarantina, tra cui le matrici, per fare più luce sulla plastica in bronzo, d’influsso laconico.

La tradizione laconica pare influenzare anche le cosidette “lampade del Sele”, in argilla, classe con caratteristiche figure femminili riscontrabili nella coroplastica tarantina, già richiamata nel confronto tra stile laconico e volto muliebre sul manico dell’hydria di Grächwill, attribuita a Taranto.

I legami richiamati tra produzioni da Paestum ed arte laconica riconducono ad una mediazione della colonia laconica di Taras? Interessandomi da tempo al problema della toreutica tarantina e della lavorazione dei bronzi, argenti ed ori a Taranto, ricordo che l’hydria da Grächwill, considerata dalla passata critica un caposaldo del “gruppo tarantino”,viene ricondotta ad un atelier artigianale tarantino produttore di anse fuse per hydriai, offi cina in cui la manualità indigena avrebbe preso il sopravvento, pur influenzata dallo stile laconico(BORDA 1979).

Le considerazioni stilistiche sui prodotti metallici oggetto del dibattito aggiungono più che togliere difficoltà ma sullo stile un passo avanti si è fatto, pur nella difficoltà del giudizio, considerando come i vasi di bronzo tardo arcaici dell’heroon, insieme alle due appliques recentemente evidenziate ,testa di cavallo e kouros, siano oeuvres qui échappent au style ionien dominant (ROLLEY 1985) con richiami, nell’esemplare di un bronzetto arcaico di kouros, all’arte peloponnesiaca ed argiva .

La lavorazione di vasi di bronzo martellati e fusi ricondotta in passato a Taranto( NEUGEBAUER 1923) per altri oggi conferma invece il ruolo fondamentale non tanto della colona spartana Taranto ma del Peloponneso(Rolley), ridimensionando Taranto rispetto ad un territorio indigeno in cui più numerosi sono i bronzi arcaici rispetto alla colonia spartana; verrebbe ridotta anche l’importanza commerciale di Taranto a favore di un import trans-adriatico diretto verso Piceno e Campania.

Come inserire d’altro canto in questo quadro complesso della bronzistica magno greca tardo-arcaica il noto Zeus stilita da Ugentum conservato nel museo di Taranto? Presenta le stesse radici stilistiche del cratere da Vix, non parla un linguaggio greco puro, proviene da un contesto messapico e non tarantino.

Si dovrebbe ipotizzare anche un atelier apulo per la bronzistica tardo-arcaica se dobbiamo concordare con Rolley che “l’Apulia non è Taranto”?

A conclusione di questo dibattito sugli ateliers metallurgici in Magna Grecia il mondo indigeno rientra a pieno titolo e va rivalutato, senza nulla togliere a Sibari come nodo storico di traffico commerciale privilegiato da leggi favorevoli alle importazioni, data la posizione strategica mediatrice del commercio etrusco tra Tirreno ed Ionio.

Di pari autorevolezza il ruolo commerciale della colonia spartana Taras nell’arco ionico costiero, comprensivo di un mondo indigeno interessato ai bronzi connessi alle pratiche del banchetto con simposio.

Il ruolo di Sibari è pienamente da confermare, a mio avviso, più come scalo milesio e tramite dei commerci tra la produzione etrusca ed il Mediterraneo; sono invece più perplessa sulla esistenza di un atelier di bronzisti a Sibari-Posidonia.

BIBLIOGRAFIA

NEUGEBAUER 1923: K.A.NEUGEBAUER, Reifarchaische Bronzevasen mit Zungemuster,in RM 1923-1924, pp.341-440

JANTZEN 1937: U.JANTZEN, Bronzewerkstätten in Grossgriecheland und Sizilien,in JdI,Ergänzungsheff XIII, 1937

WUILLEUMIER 1939: P. WUILLEUMIER,Tarente des origins à la conquête romaine,Paris 193

JOFFROY 1954: R.JOFFROY, La tombe de Vix, in MonPiot 48, 1954

BONIVENTO PUPINO 1970: G. BONIVENTO PUPINO, Il problema della toreutica tarantina, Ist. Archeologia Università degli Studi di Padova ,a. a. 1969-1970 (Tesi di Laurea-ivi bibl prec.)

LO PORTO 1970: F. G. LO PORTO,Tomba messapica da Ugento, in AttMemSocMGrecia XI-XII, 1970-71, pp.99-152

BORDA 1979: M.BORDA,Arte Dedalica a Taranto,

N. DEGRASSI, Lo Zeus stilita di Ugento, Roma 1981

E. LIPPOLIS, Toreutica,in Gli ori di Taranto in età ellenistica, cat.mostra Taranto 1985, pp.33-50

ROLLEY 1987: C.ROLLEY, Les vases de bronze de l’archaïsm recent en Grand-Grece, Napoli 1982

C.ROLLEY, La sculpture de Poseidonia,in Atti Taranto 1987, pp.192-214

BONIVENTO PUPINO 1987:G.BONIVENTO PUPINO, Un atelier di bronzisti a Posidonia? Dibattito a Rolley in Posidonia-Paestum, Atti Taranto 1987, pp.219-223

STIBBE 1992: C.M.STIBBE, Archaic bronze hydriai, in BaBesch 67, 1992, pp.1-62

TARDITI 1996: C.TARDITI, Vasi di Bronzo in area Apula-Produzioni greche ed italiche di età arcaica e classica, Lecce 1996.

domenica 20 giugno 2010

Aldo Moro: il dovere della memoria.Il bassorilievo di Aldo Pupino




Aldo Moro :il dovere della memoria.

Niente che sia morto,niente che sia fuori dalla linfa vitale della società.

Riflettiamo sul significato del monumento per Aldo Moro , l’illustre statista ucciso trentadue anni fa in via Fani.
E’ insigne opera dello scultore Aldo Pupino , consegnata nel 1980 al Liceo Archita.

di Vanna Bonivento

Oggetto del nostro approfondimento la foto dell’on. Aldo Moro in una delle visite al Liceo Ginnasio Archita il 24 maggio 1967,mentre con Nicola Rana,anch’egli un ex dell’Archita, e l’ex Preside Medori esamina il registro contenente la votazione da lui riportata agli esami di maturità; inoltre ci pare molto importante come riflessione anche per i tempi politici di oggi una frase di Aldo Moro “..io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa.
Sono infatti questi, contestazione ed alternativa i cardini della vera democrazia non passiva o succube ma vivace attiva e perché no polemica e battagliera sempre nel campo delle idee, quando occorre smuovere i macigni alias l’immobilismo, scardinare certi privilegi, togliere i veli che ricoprono scomode verità.
Comunque bastano queste parole per capire il lievito che ha rappresentato Aldo Moro per la nostra società e con quanta passione politica si è impegnato anche a costo della sua vita tanto da farne un martire moderno.
Il bassorilievo in rame realizzato trentanni orsono dallo scultore Aldo Pupino e donato e consegnato all’epoca dal Circolo il Confronto al Liceo Archita (dove studiò lo statista scomparso) ;la data del 9 maggio sbalzata sul bassorilievo indica il giorno ed il mese in cui Aldo Moro, dopo 55 giorni fu assassinato nel 1978 dalle Br; il 1980 indica l’anno di commemorazione del 2° anniversario dell’uccisione di Aldo Moro ; quello stesso giorno del 1980, di mattina, presso l’Archita avvenne l’intestazione di un’aula ad Aldo Moro; la sera dello stesso giorno l’opera di Pupino fu (alla presenza di illustri autorità quali il Presidente del C.N.R. Quagliariello, il prof. Salvatore Accardo, il compianto prof. Graziano Balzanelli Presidente del Circolo, l’on. Domenico Maria Amalfitano, l’on. Pier Giorgio Bressani Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri) consegnato dal Circolo Il Confronto, con una sentita cerimonia nel Salone della Subfor , al Liceo Archita, rappresentato dalla compianta Preside Caterina Cariddi e dal Presidente del Consiglio di Istituto avv. Fornaciari.
Prima di essere materialmente collocato al Liceo Archita il bassorilievo fu presentato il 9 maggio 1980 dallo stesso autore Aldo Pupino nella stessa Subfor nell’ambito di quella cerimonia di consegna all’Archita e che previde anche un incontro di studio sul tema di primaria importanza per la scuola,che fu svolto da Salvatore Accardo già Direttore Generale del M.P.I. Aldo Moro alla Costituente:educazione ed istruzione .
Quale è il significato della sua opera scultorea, un bassorilievo120x100 in rame brunito, sbalzato e cesellato, dedicata circa trentanni fa all’illustre statista e visibile dal 1980 dai cittadini nell’Aula Magna del Liceo Archita?
Premetto dice Pupino-che l’opera era stata collocata a suo tempo nel corridoio vicino la Presidenza dell’Archita , ma , a causa dei lavori di ristrutturazione dell’edificio il bassorilievo da alcuni anni è stato provvisoriamente appoggiato su un banco dell’Aula Magna dello stesso Liceo dopo che si è spostato dalla vecchia collocazione.
Auspico che il bassorilievo quanto prima sia sistemato, come merita la memoria di Aldo Moro e come merita lo stesso Istituto in cui Moro ha studiato.
Anche il bassorilievo, voluto anni orsono dal Liceo Archita da me eseguito per commemorare la Preside Caterina Cariddi è stato staccato dalla parete ed è in attesa di collocazione.
Sono due opere che fanno da monito alle giovani generazioni ma oggi metto in evidenza quelle pronunciate da Aldo Moro diciannove anni prima della sua morte e che ho inciso sul bassorilievo NIENTE CHE SIA MORTO
NIENTE CHE SIA FUORI DALLA LINFA VITALE DELLA SOCIETA’:
sono, queste parole di Moro, ancora oggi in tempi così difficili un messaggio di speranza e di pace per tutti e non solo per i giovani studenti dell’Archita.
Quando il bassorilievo fu consegnato all’Archita illustri autorità presero la parola ; man mano che commemoravano Aldo Moro venivo a mia volta confortato per la scelta del simbolo, l’ulivo divelto simbolo della meridionalità di Aldo Moro, della tragedia di via Fani ma soprattutto di speranza e di pace.
La frase Niente che sia morto niente che sia ai margini della società sono una sintesi del pensiero di Moro attento alle libertà dei cittadini a che non fossero soffocate dagli autoritarismi , attivo e mai succube, rispettoso dell’uomo ma convinto che tutti , nessuno escluso, né gruppo né classe sociale hanno il diritto di partecipare perché la verità assoluta non è appannaggio di nessuno in particolare; con questa frase quanto mai attuale ho evidenziato il bisogno messo in risalto da Moro di solidarietà sociale e di promozione civile; che significa che nessuna persona deve rimanere ai margini? Le parole parlano da sole ; nessuno deve essere escluso dalla vita sociale. Ricordo benissimo quanto l’onorevole Amalfitano espresse ventotto anni fa quasi ad esegesi dell’opera artistica e me le sono trascritte perché sono il commento più politicamente scientifico della frase da me scelta e scolpita: Moro ha perseguito il disegno della conciliazione delle masse con lo Stato, del superamento dell’opposizione tra il vertice e la base; non lo Stato di alcuni, ma lo Stato di tutti, non la fortuna di pochi, ma la solidarietà sociale resa possibile dal maturare della coscienza democratica e alimentata dalla consapevolezza del valore dell’uomo e delle ragioni preminenti della giustizia .Oggi queste parole sono ancora molto attuali.
L’opera è stata collocata per oltre un ventennio a fianco la ex Presidenza dell’Archita , istituto in cui anche un’aula fu dedicata ad Aldo Moro ex allievo del liceo.
Per approfondire e divulgare il significato di quest’importante opera artistica tarantina realizzata in memoria di Aldo Moro e sita al Liceo Archita ricordiamo alcuni documenti dedicati dalla stampa locale negli anni ’80 alla lettura del bassorilievo di Aldo Pupino per Aldo Moro al Liceo Archita (A. L,Taranto: ricordato l’assassinio di Moro,in Il tempo,10 maggio 1980; Puglia, TARANTO.Cerimonia all’Archita.Bassorilievo di Aldo Pupino in ricordo di Moro,10 maggio 1980; Corriere del Giorno,Taranto lo ricorda così, 9 maggio 1980; ID., La lezione che ci viene da Moro,10 maggio 1980; ID, Un olivo per ricordare l’ex alunno Aldo Moro, 8 maggio 1980; Vanna Bonivento, Moro è morto ma le radici restano , in Quotidiano l’11 e 12 maggio 1980 ; EAD., Moro:le parole e i segni ,in Corriere del Giorno, 9 luglio 1988; EAD., Aldo Moro dal vivo, in Corriere del Giorno, 14 luglio 1988 e altri).
Dopo aver ascoltato lo scultore sullo stato della sua opera collocata all’Archita, col suo consenso ripropongo con brevi varianti un significativo colloquio della sottoscritta con l’artista stesso , pubblicato nel maggio 1980, quanto mai attuale per le tematiche dell’arte, società e giovani generazioni. Ciò ai fini della lettura approfondita dell’opera.
Quale è il significato di quest’opera in memoria di Aldo Moro nel contesto della scultura e dell’arte in genere?
Quando mi fu chiesto di onorare la memoria di Aldo Moro con una mia opera ho provato un senso di angoscia e smarrimento. Lo scopo essenziale della scultura,sia antica che moderna,è infatti anche quello di realizzare simbolicamente la storia dell’umanità. Il vivere civile si distingue da quello animale anche in virtù di segni ed immagini significanti la vita stessa dell’uomo,la quale è una galleria perenne di rituali:non può a mio avviso esserci una vita civile per l’uomo se egli non crea anche un’iconografia di se stesso e delle proprie azioni.
Arte come vita dunque,calata nella storia e nella società?
Sì, e lo penso ogni qualvolta mi accinga a realizzare un’opera per la collettività che abbia la finalità di essere fruita,,amata e capita dalla gente. Perciò mi sono sforzato ,e spero di esserci riuscito, di creare col metallo un’immagine simbolica,intorno alla quale commemorare la figura di Aldo Moro.
Quale è stata la più grande difficoltà oltre al dover dare corposità al metallo con la tecnica esclusivamente manuale dello sbalzo e del cesello?
..sotto l’aspetto iconografico realizzare un simbolo che suscitasse riflessione e commozione sul pensiero ed il dramma dello statista e nello stesso tempo fosse un’opera profondamente radicata all’immagine della Puglia. L’immagine a rilievo rappresenta un olivo divelto ed abbattuto con cui ho inteso sintetizzare un evento drammatico: l’evento tragico di via Fani; l’olivo è inoltre simbolo della nostra terra che ha dato i natali ad Aldo Moro ed in cui svolse,nel liceo Archita di Taranto,i suoi studi liceali. Quanto Aldo Moro fosse legato alla Puglia è ben noto a tutti coloro che seguirono i suoi interventi a favore del Mezzogiorno.
Ciò che mi preme evidenziare è che la natalità, l’infanzia, la giovinezza, l’educazione, le radici insomma che fecero di Aldo Moro un autentico pugliese affondavano nella terra di Puglia come quelle del nodoso olivo ,purtroppo divelto, simbolo della meridionalità di Aldo Moro e della sua tragedia.
Purtroppo -continua- dal tronco nodoso ed un tempo possente e vigoroso partono radici divelte che si assottigliano sempre più esangui nell’aria come in un estremo dileguare della vita vegetativa, allegoria di un altro spegnersi, di un altro ben più drammatico dileguarsi dello spirito.
Ma ,di fronte a chi rimane solo turbato, Pupino fa notare che sotto l’immagine è sbalzata una stupenda e significativa frase di Aldo Moro, estrapolata dalla relazione che lo stesso Moro tenne a Firenze il 24 ottobre 1959 e che scritta completa nel testo suona così:
Nessuna persona esclusa dalla vitalità e dal valore della vita sociale.
Nessuna zona d’ombra in un ritmo graduale, armonico, universale di ascensione.
Niente che sia morto, niente che sia condannato, niente che sia fuori dalla linfa vitale della società.
Perché queste parole?
Le ultime parole-spiega lo scultore Pupino -sono state scelte da me in un’integrazione con l’immagine dell’olivo per ampliare il significato dell’opera; l’immagine dell’ulivo divelto suscita infatti ad una prima lettura l’idea della morte, ma esso è albero di pace e di speranza ; infatti ,se osserviamo bene, pur divelto, continua, attraverso le poche radici che lo legano all’humus, ancora a germogliare attraverso la linfa ,ricavata da un suolo arso e brullo, anche dalle pietre.
Quando Aldo Moro pronunciò quelle parole esprimeva un profondo amore per la società umana.
Traducendo attraverso l’arte un messaggio di speranza anche dalla tragedia, possiamo dire che esse esprimono un profondo amore per l’uomo e la società in cui ciascuno di noi si deve sentire partecipe.
Parole come monimentum , ammonimento e ricordo, voce che valica il tempo, di avvertimento ed ammaestramento ai giovani di oggi e di domani e non solo a quelli che frequentano l’Archita.
Le parole di Moro scritte sul monumento di Pupino sono parte dunque di un pensiero moroteo più ampio che tocca i valori della dignità della persona umana,del diritto di tutti a partecipare alla vita sociale,alla sua ricchezza.
Non lo Stato di alcuni, ma lo Stato di tutti; non la fortuna dei pochi, ma la solidarietà sociale :sono parole queste dello stesso Aldo Moro. Quanto mai attuali!


lunedì 14 giugno 2010

Taranto e la memoria silente dei Tarantini.


Abbiamo scelto questa immagine allegorica per dare vita al nostro blog di archeologia e di attualità dedicato a Taranto ed alla Magna Grecia prevalentemente alla Taranto di ieri ma con attenzione al presente ed al futuro della nostra amata città.Una città sempre più avvitata in una sorta di sudario che la avvolge e la soffoca fino a non farla più esprimere. Senza memoria storica, senza cultura una città perde la sua identità.Questo è successo a Taranto dove si sono distrutte importanti testimonianze del passato per dare spazio al cemento.Il velo di Taranto moderna è un vero sudario di cemento.Ma non mancano bellezze antiche e contemporanee da svelare nei vari settori della cultura e dell'arte, della creativa imprenditoria.Valorizziamole e..sveliamole insieme.
La memoria silente, una scultura in argilla bianca colorata a crudo in ocra rossa , è stata realizzata nel 1998 e cotta nel forno per ceramiche e terrecotte dello scultore Aldo Pupino.
La terracotta rappresenta una testa femminile bendata sulla fronte, vicino agli occhi ed alla bocca, ancora non del tutto sigillata .
Le bende imbavagliano la voce.
Non esce più la parola, un accenno di apertura alle labbra per tentare di emettere verbo.
L’opera è allegorica di una Taranto ferita ed agonizzante, con la testa appoggiata al suolo, ormai prostrata e morente.
Le bende che cercano di sanare le ferite si disfano nell'abbandono e nell'incuria.
La bocca cerca di emettere parole ma nessuno ascolta. Gli occhi sono però aperti, la memoria non pare del tutto perduta, racchiusa nella testa fasciata.
Le bende sono simbolo sacro ; come sacra è per i tarantini veraci l’amata Taranto rappresentata dallo scultore tarantino Aldo Pupino come una figura femminile ferita e sofferente, una sacerdotessa dell'antichità greca i cui occhi, come fu per Cassandra violata, vedono le conseguenze di una guerra nefasta (quella contro il territorio tarantino) e cerca ancora di parlare.
Ma nessuno le ha dato ascolto, finora.
La bocca è muta ma gli occhi vedono ed il cervello riceve.
Quindi Taranto, la nostra amata città è ancora cosciente.
Si può e si deve ancora salvare .Ci deve essere una luce di Arianna nel labirinto e nel buio della crisi in cui versa Taranto e che aiuti i Tarantini ad affrontare ed uccidere il mostro !

Vanna Bonivento Pupino